venerdì 16 novembre 2007

American Pimp

American Pimp è un film straordinario. Un documentario fatto con grande classe e sottigliezza da due nomi che i cultori della cinematografia hip hop conoscono bene, quei fratelli Hughes di Menace II Society (e, in maniera molto meno memorabile, From Hell).
Con American Pimp ci troviamo di fronte ad uno squarcio di luce su un mondo sempre più glorificato dagli “esterni” (il successo di P.I.M.P. vi ricorda niente?) ma di cui non si sa niente di “vero”, se non le cazzate patinate propinateci da cattivi film e cattive canzoni hip hop.
I due gemelli Hughes, invece, tentano di darci una visione “illuminata” sulla professione più antica del mondo (anzi la seconda più antica del mondo), il magnaccia.
Quello che i benpensanti potrebbero vedere come una debolezza, ovvero la scelta di mostrare il gioco (“the game”) solo dalla parte dei magnaccia, è il punto di forza del documentario, secondo me.
Le prostitute vengono mostrate solo mentre lavorano. Pochissime sono intervistate, e alcune volte la loro presenza serve solo a mostrarci quali siano le dinamiche del rapporto pimp-bitch.
Ma questo non è sensazionalismo da Domenica In, né glamour di scarto da Lucignolo. Qui non ci troviamo di fronte ad un dubbio morale: uno dei magnaccia stessi del film, Gorgeous Dre, dice che la professione di pappone è immorale di fronte a Dio (anche se aggiunge che secondo lui, nel “game” non c’è niente di criminoso). Nel film si discute l’essenza del “game”. Il rapper Too Short pone la domanda cui il film tenta di rispondere: “Come mai quel tipo con gli abiti sgargianti, quello che tu consideri un pagliaccio, si prende le donne più belle e se ne va in Cadillac? Come fa ad avere senso una cosa del genere?”
Da qui, excursus storico incluso, parte tutta la riflessione. I maestri ci danno lezioni di pimpologia applicata: gli insegnamenti vengono da alcuni dei più grandi, come i leggendari Fillmore Slim e Bishop Magic Don Juan (anche se avrei voluto sentire un po’ di paroline dolci dagli assenti Good Game e Pimpin’ Ken, per esempio).
Come immaginabile, per un uomo normale con una relazione fidanzato-fidanzata o marito-moglie, la nozione di pimping ha la stessa comprensibilità del colore rosso per un cieco o, come dice uno dei protagonisti del film, dell’astrofisica per un ubriacone. Ma questo non toglie niente al fascino degli “slick talkers” del film, uomini in grado (e come dar loro torto?) di trasformare ogni donna nella loro troia, e senza usare né droga né violenza (non necessaria, sempre secondo i protagonisti).
Il film dà sicuramente degli spunti interessanti e offre uno spaccato di vita di uomini che non amano tanto il sesso quanto i soldi (e solo i soldi), ma, in maniera paradossale e quasi sconcertante, mettono di fronte a tutto valori come “la professionalità” e “l’onestà”. Incredibile dictu, ma il mondo della prostituzione ci si rivela come il resto della vita reale: prima che un pappone, devi essere un uomo.

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