lunedì 6 luglio 2009

DJ Muggs Uncut pt. 3

DJ Muggs è da oltre quindici anni il campione indiscusso di quel “gotico californiano” che si è imposto nella costa ovest come musica alternativa al G-funk di maniera, e che fonde senza sforzo elementi del “brown pride” messicano, sobrietà East Coast, funk “stonato” e influenze vagamente horror. Durante la seconda metà degli anni ’90, Muggs col suo stile ha forgiato il suono di alcune delle band più importanti per quanto riguarda il cosiddetto cross-over fra suoni hip-hop e rock, come Cypress Hill, Funkdoobiest e House of Pain, capaci di attingere a un serbatoio di fan fino a quel momento irraggiungibile per la musica “urban”. L’intervista è apparsa in versione editata nel numero 17 di Superfly e viene qui presentata per la prima volta in versione completa.

Previously: Part 1
Previously: Part 2

Ma non hai sentito la pressione di mantenere un’atmosfera consistente per l’MC?

Nessuna pressione: sai che cosa è la pressione? È quando hai un super-gruppo come i Cypress Hill e hai la Columbia con il fiato sul collo perché vogliono una hit, ma non sanno cosa vogliono, e poi quando gli dai una hit non sanno che farci e tirano fuori scuse? E poi che cazzo è “una hit”? Ogni hit che ho tirato fuori non è mai stata la tipica canzone da radio: puoi ascoltare tutti i miei successi, e non ci sono cantanti r’n’b, o basi r’n’b. Non c’è nulla di molle. Se mi dici che vuoi una hit, ti do la mia interpretazione di una hit. Ma se parliamo dei trend radiofonici, io non seguo le mode della radio, non mi importa. Per tornare alla pressione, l’ho vissuta negli ultimi tempi passati alla Columbia Records, quando volevano trasformarci in qualcosa che non eravamo.

Hai parlato di punk rock, che poi sarebbe come l’attitudine degli N.W.A…
Beh, l’hip-hop è la versione urbana del punk-rock, e il punk e l’hip hop vengono dagli stessi posti, e si basano sulla stessa idea di fare musica ribelle e di avere qualcosa da dire, che va contro le regole e dice fanculo alle radio e ai video in nome della libertà di espressione. Hip hop, lungo la via, ha perso queste caratteristiche, è diventato “Britney Spears”, quando invece non dovresti essere uguale a nessun altro, o suonare come nessun altro, perché sei scarso, un “biter”, e ciò non è accettabile.
Ora lo chiamano “hating”: io lo chiamo “se fai schifo, fai schifo”. Ma per tornare alla connessione hip-hop/punk, una delle prime prove di rap bianco è venuta dai Blondie, che rappavano in stile Rapper’s Delight nel 1979. Il punk e il rap stavano gomito a gomito nel CBGB’s e a Downtown Manhattan: è tutta una questione di attitudine e di significato, di purezza della forma d’arte e di comprensione della stessa. Cerco ancora oggi di portare con me quell’energia, perché è quello che mi ha ispirato a fare questa musica, essere un individuo ed essere me stesso, esprimendo tutto ciò nella musica.
È una questione di mostrare il medio e dire “Fanculo figli di puttana pop! Non faremo merda pop, ma solo la merda che la gente vuole veramente sentire, e non quella che gli state imboccando a forza”. Noi continuiamo a farlo. Questa è l’attitudine punk che caratterizza l’hip-hop dalle origini. Mi sono sempre piaciute le cose poco convenzionali. Se dovessi paragonare la mia musica ad un artista, direi che sarebbe Salvador Dalì: è astratta, e puoi trovarci tantissimi diversi significati. Venti diverse persone possono guardare un pezzo e trovarci venti diversi significati.

E non era certamente un conformista.
Esatto, non è conformista, ma ti tocca l’anima. Sono soltanto felice di essere qui, e svegliarmi ogni giorno e fare ciò che voglio. Questa è la vera libertà. C’è sempre un prezzo da pagare per la libertà, che non è gratuita, e per me, come artista e come uomo, avere la possibilità di poter fare quello che faccio, è meraviglioso.

Questo credo che sia uno dei concetti che traspaiono da Pain Language, la collaborazione con Planet Asia. Ci hai già raccontato del vostro incontro, vuoi parlarci invece del concept dell’album?
Certo. È difficile trovare rapper, e non solo, a cui piaccia la musica “raw”, e che capiscano l’importanza di non sovra-produrre. Quando è arrivato Planet Asia, ho capito che gli piaceva questa musica nella sua forma più pura, e sentendo i demo, gli ho detto: “Ma tu sei come me!”. Non c’è molta gente alla quale piace la roba “raw” come me, e lui invece era così, quindi abbiamo iniziato a mettere giù l’album, che era una rappresentazione di come dovrebbe suonare la musica dura e non adulterata, e, senza nozioni precostituite, come abbiamo iniziato a sviluppare il disco, è venuto fuori naturalmente come doveva essere. L’idea del linguaggio e delle sue origini venne fuori così, e poi Planet Asia ha scritto la canzone Pain Language che tratta di come la gioventù urbana si esprime attraverso il proprio dolore, e di come dal dolore nasca la bellezza, nella forma del linguaggio. Siccome il nostro linguaggio è ribelle, praticamente stiamo usando il nostro dolore, attraverso il linguaggio, per esprimerci.
Allo stesso tempo, volevamo evidenziare come il linguaggio cambia di giorno in giorno, ed è il linguaggio che parliamo, che lo si chiami “ebonics” o in maniera diversa. Tutti abbiamo il nostro linguaggio: questo è più o meno il concetto portante dell’album. Non ci siamo seduti a pensarlo in maniera scientifica, ma questi erano i nostri pensieri durante il processo.

Hai parlato dell’aspetto “hardcore” di Planet Asia. Sebbene sia un ottimo MC, non ha un’identità musicale ben definita. Come hai cercato di risolvere questo e che tipo di beat hai cercato di cucirgli addosso?
Asia non ha un’identità musicale, è questo il problema. E questa è la ragione per cui sono arrivato io, ovvero per risolvere il problema e dargli una identità musicale, perché quando guardo ad Asia penso: “Questo tipo è bravissimo, ma i suoi fan non riescono ad affezionarsi perché rappa su ogni tipo di beat”. Gli piace altra roba, tipo la musica gangsta, e quello che fa è di rappare su tutta una serie di beat diversi, per cui per la gente è difficile capire chi sia Planet Asia e che cosa voglia esprimere, dato che lo si sente in tanti differenti elementi. Se lo senti su un beat pop, puoi pensare che ciò sia uno schifo, ma la sua vera essenza è quella di un rapper hardcore: è solo che ancora non ha trovato un produttore che gli abbia dato quella identità musicale.
Quando lo guardo, vedo i punti in cui è carente: quindi gli ho detto che poteva essere veramente forte (“dope” in originale, N.d.T.) e di lasciare che gli costruissi una identità musicale. Infatti, ho sempre pensato che ci sia bisogno di un’identità “lirica”, un’identità fisica ed un’identità musicale: se hai tutte e tre queste caratteristiche, come i Public Enemy, i Cypress Hill o i Run-DMC (o anche L.L.), allora sei un’entità completa. Ora penso che anche Asia lo sia, e la gente lo guarda in maniera completamente diversa, oggigiorno. Non è Nas, nel senso che non è il miglior liricista cui si possa pensare, ma ha quella crudezza e quell’energia che lo rendono simile a un Method Man, Ghostface Killah o Prodigy. Lavorare con lui è stato eccitante e divertente, dato che avevo la mira di cucirgli addosso un sound e di dargli una identità musicale: penso che ce l’abbiamo fatta. Ora spero solo che non rovini tutto facendo cazzate e tornando a fare dischi pop! (ride)

A parte Pain Language, quali sono gli altri progetti a cui stai lavorando?
Ora ho in lavorazione un nuovo disco dei Soul Assassins che esce a Febbraio. È un EP, ma conterrà circa 13 canzoni. Sono “rimasugli” che avevo in giro per lo studio e qualche canzone nuova, e saranno accoppiati ad una rivista basata sui Soul Assassins, con interviste a tutta la crew e la nostra storia. Poi inizierò a finire l’album vero e proprio per la fine dell’anno prossimo. Sarà la colonna sonora per il film, si intitolerà Soul Assassins III e sarà prodotto da DJ Khalil, Alchemist e me. Questi sono i due progetti più immediati. Per quanto riguarda invece i Cypress Hill, ho appena consegnato 10 beat, e sono già state registrate 30-40 canzoni. Inoltre, tutto il gruppo dei Soul Assassins ha nuovi progetti in uscita: Alchemist ha Chemical Warfare, B-Real ha Smoke N Mirrors in uscita per la Duck Down, i Self Scientific hanno Come in Peace, Prepare for War che sarà fuori l’anno prossimo. Stiamo tutti lavorando, e presto ci sarà un grande festival targato Soul Assassins a Los Angeles. Mi raccomando, per tutte le novità, aggiornate giornalmente, c’è www.soulassassins.com.

Possiamo aspettarci altri album in cui fai coppia con un solo MC?
Certamente, di sicuro. Non so ancora chi sarà il rapper, perché devo vedere chi ha voglia di lavorare sodo perché ci crede veramente, ma certamente troverò qualcuno, parleremo, e ci chiuderemo in studio per un mese. Tutti vorrebbero fare un disco, ma poi non lavorano sodo abbastanza… Un sacco di persone mi chiamano a questo proposito, vogliono fare un disco… ancora non so. Non sento ancora le vibrazioni giuste.

Hai detto che non ti piace dare beat a caso, e che preferisci un approccio organico, ma pensi che vedremo mai tue produzioni per artisti fuori dal tuo giro?
Non è divertente, perché sai che c’è? Per la mia esperienza, è meglio fare un album per una band, come un album dei Cypress Hill, o dei Funkdoobiest, o degli House of Pain, o un album dei Soul Assassins. È più divertente, e alla fin fine sei padrone del tuo publishing. Diamond D me lo disse tanto tempo fa, che stavo facendo bene ad avere la proprietà delle mie canzoni. Ci ho pensato su, e ho realizzato che potevo produrre tante canzoni per aiutare gente durante la loro carriera, ma alla fine non mi sarebbe rimasto nulla in mano. Inoltre, gli album ti danno molto di più, le canzoni vanno e vengono. Secondo punto: ho mandato in giro un sacco di beats, e succede che vengono messi sui mixtape e perdono ogni valore. Inoltre, scopri che la tua roba a un certo punto viene risuonata e cambiata: dai un beat a qualcuno e poi se lo risuonano e lo fanno uscire per conto loro. Terzo punto: ci sono un sacco di A&R che sono alla ricerca di merda pop, e io non sono interessato. Non mi servono i soldi in maniera così pressante. Guadagno abbastanza, quindi voglio continuare a fare le cose a modo mio, e mettere fuori degli album che mi diano soddisfazione.

Qualche parola di commiato per i tuoi fan italiani?
Vorrei ringraziarli per il supporto e l’affetto dimostrati durante il corso degli anni.



3 commenti:

Anonimo ha detto...

ora ho capito da dove hai elaborato il discorso del punk-hiphop

BAAUAU

Antonio ha detto...

Giuro che me ne ero dimenticato!
Nel tagliuzzare l'intervista per il blog mi è tornato in mente, ma nella stesura del pezzo sul punk non c'entra...

jop ha detto...

Si certo, come no.