Recensione: Slaughterhouse - Slaughterhouse
Non c’è dubbio che Slaughterhouse rappresenti (mi sbilancio) la migliore espressione oggi in giro dell’hip hop “lirico” e un modello cui ispirarsi per quanto riguarda l’eccellenza verbale. Pochi possono confrontarsi con le acrobazie verbali dei 4 mostri che rappresentano Los Angeles, New York, Detroit e il Jersey (incidentalmente i soli posti in cui si faccia musica hip hop di cui mi importa veramente ora, ma divago).
Il problema, nell’organizzazione del gruppo e nella stesura dell’album, era però duplice. Da un lato, c’era il problema di evitare la “sindrome del progressive”, ovvero una potenziale deriva verso un dispiego di tecnica eccessivo e soprattutto fine a sé stesso. Dall’altro, vi era la curiosità di vedere se fosse possibile trovare un equilibrio fra gli aspetti lirico e musicale, in maniera da bilanciare l’enorme capacità tecnica degli MC con beats che fossero, allo stesso tempo, sufficientemente caratterizzati ma non sovrapprodotti.
Insomma, i rischi c’erano e non erano pochi. Se a questo si aggiunge che restava da vedere la capacità di funzionare come gruppo e soprattutto che in passato alcuni dei membri del “mattatoio”, nello specifico Joey Budden e Royce (ma anche Crooked I, in qualche misura), avevano fatto macroscopici errori nella scelta delle basi musicali, allora la possibilità che si sgarrasse era più che concreta. E invece Slaughterhouse non delude, e trova una quadratura del cerchio francamente spesso sorprendente.
È interessante vedere come le dinamiche interne al gruppo portino i membri a giocare in ruoli praticamente fissi. Con una metafora di sapore calcistico, Royce è la prima punta, Joell Ortiz il fantasista e Crooked I il libero, mentre Joey Budden si accontenta di giocare da mediano, ctalizzando il gioco in maniera tanto essenziale quanto sottile e poco appariscente (dopotutto, Slaughterhouse è una sua creazione e si vede).
Inutile dire che tutti trovano il momento giusto per una prestazione da MVP: in particolare, Crooked I giganteggia in Not Tonight, Joell Ortiz devasta Sound Off, Royce macella Microphone e Budden brilla in Salute, ma tutti si superano.
Ma soprattutto, si vede la voglia di rubare la scena agli altri in una rivalità sana che, a livello lirico, deve avere rappresentato una sorta di sprone al miglioramento simile a quella che, a livello musicale, si racconta provarono i produttori coinvolti nella realizzazione di Illmatic.
In questo senso, sembrano tornati i tempi in cui l’obiettivo di un MC era quello di oscurare gli altri, al di là di rime “gimmick” e di gioielli e coca. E si vede che a questo puntano i nostri, che hanno come obiettivo dichiarato quello di levare la polvere al bottone di rewind...
In generale, il membro più appariscente è Royce, presente per esempio nella maggior parte dei coretti, che demolisce tutto come ormai ci ha abituato da qualche anno, ma gli altri non sono da meno. In particolare, Crooked I lascia spesso a bocca aperta con metafore sottili, mentre Joell Ortiz è probabilmente il “macellaio” più convincente e costante (e quello che, secondo me merita la palma di migliore in campo, alla fine della fiera).
Il disco si apre bene, anzi benissimo: Sound Off accoppia fiati di sapore east con un’apertura al doppio tempo di stile più sudista (e il doppio tempo, se fatto bene, rende sempre, si sa). Inutile dire che ognuno degli Slaughterhouse distrugge il beat, soggiogandolo con irrisoria facilità.
In generale, i momenti migliori dal punto di vista musicale sono quelli più “polverosi” con i campionamenti di fiati, che permettono ai nostri di affabulare l’ascoltatore con il classico, immortale “brag rap” con una punta d’ironia che li ha sempre caratterizzati (vedi le ottime Not Tonight e Onslaught 2).
In altri momenti, il gruppo si dedica alla costruzione di brani più concettuali, che offrono una gradita variazione rispetto ad un’autoesaltazione che, sebbene interessante nella costruzione, a volte potrebbe risultare un po’ noiosa. Microphone, The One, Cuckoo e soprattutto l’efficace Cut You Loose sono ben eseguite dal punto di vista lirico e lasciano intravedere le enormi possibilità che il gruppo ha quando “gioca di squadra” e non indulge nella reiterazione dei propri trascorsi “a solo” (cosa che ricorre un po’ troppo spesso nel corso dell’album e rappresenta l’unico vero difetto di rilievo dal punto di vista lirico). In particolare, il modo in cui il gruppo rigira, rinfrescandolo, il classico concetto di “lettera d’amore all’hip hop” di Cut You Loose fa ben sperare, in un momento in cui il “liricismo” non sembra navigare in buone acque (e il sottile diss a Method Man da parte di Budden aggiunge un’ulteriore puntina di pepe).
Se ciò non bastasse, Rain Drops riesce a trovare un angolo diverso alla solita trita e triste storia di ragazzini diventati uomini troppo presto, a dimostrazione di una progettualità oggi rara a livello di hip hop, in cui le “sixteen bars” diventano sempre più solo un aperitivo...
A livello musicale, l’effetto complessivo merita un’ampia sufficienza, anche per la capacità di trovare un amalgama sonoro che si adatta ad ognuno dei membri senza soffocarli: in questo senso, si fa notare il lavoro del bravo Emile, mentre a Streetrunner va la palma dei migliori beats.
A volte il suono troppo “mainstream” non coglie totalmente il bersaglio, come nel caso dei beat prodotti dai beatmakers più “commerciali” del giro Aftermath (paradossalmente alcuni dei nomi più noti: Alchemist, TheRealFocus e uno spento Khalil, il più deludente), e il disco finisce un po’ in calando, ma sono tutto sommato dettagli.
Certo, la soluzione perfetta sarebbe stata quella di avere un “regista” che svolgesse il ruolo di supervisore in maniera analoga a quanto fece RZA per Supreme Clientele, ma non si può avere tutto: e visti i non eccelsi risultati ottenuti da Premier per The Blaqprint, forse è meglio così.
Il problema, nell’organizzazione del gruppo e nella stesura dell’album, era però duplice. Da un lato, c’era il problema di evitare la “sindrome del progressive”, ovvero una potenziale deriva verso un dispiego di tecnica eccessivo e soprattutto fine a sé stesso. Dall’altro, vi era la curiosità di vedere se fosse possibile trovare un equilibrio fra gli aspetti lirico e musicale, in maniera da bilanciare l’enorme capacità tecnica degli MC con beats che fossero, allo stesso tempo, sufficientemente caratterizzati ma non sovrapprodotti.
Insomma, i rischi c’erano e non erano pochi. Se a questo si aggiunge che restava da vedere la capacità di funzionare come gruppo e soprattutto che in passato alcuni dei membri del “mattatoio”, nello specifico Joey Budden e Royce (ma anche Crooked I, in qualche misura), avevano fatto macroscopici errori nella scelta delle basi musicali, allora la possibilità che si sgarrasse era più che concreta. E invece Slaughterhouse non delude, e trova una quadratura del cerchio francamente spesso sorprendente.
È interessante vedere come le dinamiche interne al gruppo portino i membri a giocare in ruoli praticamente fissi. Con una metafora di sapore calcistico, Royce è la prima punta, Joell Ortiz il fantasista e Crooked I il libero, mentre Joey Budden si accontenta di giocare da mediano, ctalizzando il gioco in maniera tanto essenziale quanto sottile e poco appariscente (dopotutto, Slaughterhouse è una sua creazione e si vede).
Inutile dire che tutti trovano il momento giusto per una prestazione da MVP: in particolare, Crooked I giganteggia in Not Tonight, Joell Ortiz devasta Sound Off, Royce macella Microphone e Budden brilla in Salute, ma tutti si superano.
Ma soprattutto, si vede la voglia di rubare la scena agli altri in una rivalità sana che, a livello lirico, deve avere rappresentato una sorta di sprone al miglioramento simile a quella che, a livello musicale, si racconta provarono i produttori coinvolti nella realizzazione di Illmatic.
In questo senso, sembrano tornati i tempi in cui l’obiettivo di un MC era quello di oscurare gli altri, al di là di rime “gimmick” e di gioielli e coca. E si vede che a questo puntano i nostri, che hanno come obiettivo dichiarato quello di levare la polvere al bottone di rewind...
In generale, il membro più appariscente è Royce, presente per esempio nella maggior parte dei coretti, che demolisce tutto come ormai ci ha abituato da qualche anno, ma gli altri non sono da meno. In particolare, Crooked I lascia spesso a bocca aperta con metafore sottili, mentre Joell Ortiz è probabilmente il “macellaio” più convincente e costante (e quello che, secondo me merita la palma di migliore in campo, alla fine della fiera).
Il disco si apre bene, anzi benissimo: Sound Off accoppia fiati di sapore east con un’apertura al doppio tempo di stile più sudista (e il doppio tempo, se fatto bene, rende sempre, si sa). Inutile dire che ognuno degli Slaughterhouse distrugge il beat, soggiogandolo con irrisoria facilità.
In generale, i momenti migliori dal punto di vista musicale sono quelli più “polverosi” con i campionamenti di fiati, che permettono ai nostri di affabulare l’ascoltatore con il classico, immortale “brag rap” con una punta d’ironia che li ha sempre caratterizzati (vedi le ottime Not Tonight e Onslaught 2).
In altri momenti, il gruppo si dedica alla costruzione di brani più concettuali, che offrono una gradita variazione rispetto ad un’autoesaltazione che, sebbene interessante nella costruzione, a volte potrebbe risultare un po’ noiosa. Microphone, The One, Cuckoo e soprattutto l’efficace Cut You Loose sono ben eseguite dal punto di vista lirico e lasciano intravedere le enormi possibilità che il gruppo ha quando “gioca di squadra” e non indulge nella reiterazione dei propri trascorsi “a solo” (cosa che ricorre un po’ troppo spesso nel corso dell’album e rappresenta l’unico vero difetto di rilievo dal punto di vista lirico). In particolare, il modo in cui il gruppo rigira, rinfrescandolo, il classico concetto di “lettera d’amore all’hip hop” di Cut You Loose fa ben sperare, in un momento in cui il “liricismo” non sembra navigare in buone acque (e il sottile diss a Method Man da parte di Budden aggiunge un’ulteriore puntina di pepe).
Se ciò non bastasse, Rain Drops riesce a trovare un angolo diverso alla solita trita e triste storia di ragazzini diventati uomini troppo presto, a dimostrazione di una progettualità oggi rara a livello di hip hop, in cui le “sixteen bars” diventano sempre più solo un aperitivo...
A livello musicale, l’effetto complessivo merita un’ampia sufficienza, anche per la capacità di trovare un amalgama sonoro che si adatta ad ognuno dei membri senza soffocarli: in questo senso, si fa notare il lavoro del bravo Emile, mentre a Streetrunner va la palma dei migliori beats.
A volte il suono troppo “mainstream” non coglie totalmente il bersaglio, come nel caso dei beat prodotti dai beatmakers più “commerciali” del giro Aftermath (paradossalmente alcuni dei nomi più noti: Alchemist, TheRealFocus e uno spento Khalil, il più deludente), e il disco finisce un po’ in calando, ma sono tutto sommato dettagli.
Certo, la soluzione perfetta sarebbe stata quella di avere un “regista” che svolgesse il ruolo di supervisore in maniera analoga a quanto fece RZA per Supreme Clientele, ma non si può avere tutto: e visti i non eccelsi risultati ottenuti da Premier per The Blaqprint, forse è meglio così.
7 commenti:
A parte che pubblicare una recensione alle nove di sabato mattina mi fa scorrere "WTF" sulle pupille, a mo' di Nasdaq, ti dirò che secondo me hai centrato i punti essenziali ma, beat "meh" a parte (lì serviva un quinto membro che li scegliesse per loro, pochi cazzi), il più grosso difetto del disco è che troppo spesso pare un copiaincolla di strofe fighe e non un lavoro organico.
E questo e le basi me l'hanno fatto scendere molto.
Ah props per la nuova grafica e per l'header, mi auguro che tu abbia una tavoletta grafica però
A parte che pubblicare una recensione alle nove di sabato mattina mi fa scorrere "WTF" sulle pupille
Preparo una serie di post in anticipo di una settimana, e li programmo ad intervalli di due giorni. Quindi la recensione (che ho scritto forse due settimane fa) è venuta fuori casualmente di sabato (e a quell'ora).
Boh, per i beat il discorso è vero in parte, nel senso che sono poco incisivi, ma sono anche poco invasivi e qualche volta anche carini. Poi è sempre un discorso soggettivo, legato anche al momento.
Tipo, i beat di Honda IV sono (molto) meglio, pero' che DJ Honda si metta a fare Just Blaze con cinque anni di ritardo mi fa cadere le palle, per dire.
il più grosso difetto del disco è che troppo spesso pare un copiaincolla di strofe fighe e non un lavoro organico
vero, però i 4 sono tutti quel tipo di MC "bragger", e io mi aspettavo che fosse SEMPRE un assalto lirico all'arma bianca (magari con mp3 scambiati), mentre invece i 4 in non poche occasioni si sono pure seduti a cercare un minimo di concetto.
Se vogliamo dargli un "capitano non giocatore" tipo coppa Davis a sciegliere le basi, propongo Rick Ross. Sceglie i beat e non rappa.
Grazie per i complimenti per la grafica. La tavoletta grafica ce l'avrei pure, ma non la so usare...
L'header e' una immagine rubata... ehm, campionata.
Sciegliere? come scrivo...
Mah insomma com'era prevedibile a me il disco ha un po' deluso. Tutto fuorché brutto, chiaro, ma il risultato è inferiore alla somma delle parti.
Chi invece mi sta dando soddisfazioni -anchè se non è un Return Of The Boom Bap- è Trife, ascoltatelo che è un buon esempio di boomcha classico rappato parecchio bene
Cazzo anch'io, "Esempio di boomcha classico", parlo come una recensione di Aelle del 97
In dopa!
Mah insomma com'era prevedibile a me il disco ha un po' deluso
Legittimo, ovviamente.
Chi invece mi sta dando soddisfazioni -anchè se non è un Return Of The Boom Bap- è Trife
Provo, ma Trife di solito mi prende male, più per colpa mia che per demeriti suoi, forse...
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