Letture dell’Estate II
Sanyika Shakur - T.H.U.G. L.I.F.E. (Grove)
Come per tutti gli autori afroamericani con conoscenza di prima mano della materia gangsta (Shakur è stato un gangbanger, come documentato nell’autobiografia Monster), le descrizioni del ghetto, la precisione del gergo, i piccoli trivia mai visti in TV e i personaggi del giro assumono caratteristiche più tridimensionali e interessanti degli stereotipi logori e tediosi del noir medio.
In questo senso, il valore del libro sta proprio nella capacità del narratore di raccontare, su una trama abbastanza facile da decifrare sin dall’inizio, le contraddizioni della vita da gangsta, anche quando se ne voglia uscire o comunque si sia abbastanza intelligenti da cercare di non rimanere un gangbanger di bassa lega a vita. Tutti i personaggi dell’opera, a partire dal protagonista Lapeace Shakur, infatti, hanno un rapporto ambivalente nei confronti della violenza delle gang: da un lato si rendono conto (soprattutto con la crescita interiore di Lapeace) di quanto sia triste un modello come quello reso celebre nel mondo dai Bloods e Crips di L.A., dall’altro sono affascinati dai codici comportamentali dal vago sapore etico dei “real G’s”. Ma, al di là di quello che resterebbe solo un dato di maggiore veridicità nel trattamento della materia gang (e in cui spicca l’uso precisissimo del gergo delle gang), il libro si caratterizza per altri livelli di lettura, altrettanto godibili. A fronte di una trama non particolarmente complessa, Shakur è abile nel fare muovere con precisione tutte le figure, di primo piano e non, che affastellano un mondo che è al contempo, piccolissimo (the hood) ed enorme (il ghetto arriva, tramite gli echi del libro, sino a Las Vegas e al Mississippi). Ogni personaggio, anche quelli che il narratore disprezza (gli “snitch”, i poliziotti corrotti, gli odiati Blood) è reso in maniera fluida e brillante, risultando interessante e vivo, soprattutto a fronte dell’ironia del fatto che, nel libro e nella realtà, questi personaggi giocano a un mortale gioco di ruolo in cui chiunque, come nella scacchiera di Sista Monster e Poppa North, deve assumere una posizione precisa.
Shakur, in questo contesto, è bravo a fare crescere la figura di Lapeace (suo alter ego ideale, evidentemente, visti i parallellismi con i problemi della vita reale dell’autore), dandogli nuovo respiro e voglia di diventare “completo” mano a mano che la vicenda si dipana. Il protagonista non è un santo e non è un gangbanger, non può esimersi dal rappresentare il proprio “set” e dall’essere affascinato dalla violenza gangsta, ma investe i propri soldi in azioni pulite e non spaccia né fa il criminale. Porta una pistola, ma è un adulto intelligente e persino abbastanza colto, che non manca di mostrare, di tanto in tanto, una sana fragilità.
Un altro livello di lettura è quello dell’autoaffermazione dell’autore, che traccia le radici del proprio personaggio (e le sue, al contempo) con la “dinastia” degli Shakur, che da Assata a Tupac tanto ha prodotto in termini della controcultura nera contro il regime “amerikano”.
In questo senso, è totalizzante la presenza di Tupac Shakur, i cui testi (e la cui fiera rappresentazione di quella “thug life” che dà senso a tutto il libro) impregnano ogni pagina del libro, in persona o nella “controfigura” Askani Shakur, che vive la stessa “thug life” e muore a Las Vegas come 2Pac. È grazie anche e soprattutto alla musica di Shakur che il romanzo riesce a darci la sensazione di prima mano di quel misto di trionfo, depressione e paranoia che tante grandi canzoni ci ha dato.
Come per tutti gli autori afroamericani con conoscenza di prima mano della materia gangsta (Shakur è stato un gangbanger, come documentato nell’autobiografia Monster), le descrizioni del ghetto, la precisione del gergo, i piccoli trivia mai visti in TV e i personaggi del giro assumono caratteristiche più tridimensionali e interessanti degli stereotipi logori e tediosi del noir medio.
In questo senso, il valore del libro sta proprio nella capacità del narratore di raccontare, su una trama abbastanza facile da decifrare sin dall’inizio, le contraddizioni della vita da gangsta, anche quando se ne voglia uscire o comunque si sia abbastanza intelligenti da cercare di non rimanere un gangbanger di bassa lega a vita. Tutti i personaggi dell’opera, a partire dal protagonista Lapeace Shakur, infatti, hanno un rapporto ambivalente nei confronti della violenza delle gang: da un lato si rendono conto (soprattutto con la crescita interiore di Lapeace) di quanto sia triste un modello come quello reso celebre nel mondo dai Bloods e Crips di L.A., dall’altro sono affascinati dai codici comportamentali dal vago sapore etico dei “real G’s”. Ma, al di là di quello che resterebbe solo un dato di maggiore veridicità nel trattamento della materia gang (e in cui spicca l’uso precisissimo del gergo delle gang), il libro si caratterizza per altri livelli di lettura, altrettanto godibili. A fronte di una trama non particolarmente complessa, Shakur è abile nel fare muovere con precisione tutte le figure, di primo piano e non, che affastellano un mondo che è al contempo, piccolissimo (the hood) ed enorme (il ghetto arriva, tramite gli echi del libro, sino a Las Vegas e al Mississippi). Ogni personaggio, anche quelli che il narratore disprezza (gli “snitch”, i poliziotti corrotti, gli odiati Blood) è reso in maniera fluida e brillante, risultando interessante e vivo, soprattutto a fronte dell’ironia del fatto che, nel libro e nella realtà, questi personaggi giocano a un mortale gioco di ruolo in cui chiunque, come nella scacchiera di Sista Monster e Poppa North, deve assumere una posizione precisa.
Shakur, in questo contesto, è bravo a fare crescere la figura di Lapeace (suo alter ego ideale, evidentemente, visti i parallellismi con i problemi della vita reale dell’autore), dandogli nuovo respiro e voglia di diventare “completo” mano a mano che la vicenda si dipana. Il protagonista non è un santo e non è un gangbanger, non può esimersi dal rappresentare il proprio “set” e dall’essere affascinato dalla violenza gangsta, ma investe i propri soldi in azioni pulite e non spaccia né fa il criminale. Porta una pistola, ma è un adulto intelligente e persino abbastanza colto, che non manca di mostrare, di tanto in tanto, una sana fragilità.
Un altro livello di lettura è quello dell’autoaffermazione dell’autore, che traccia le radici del proprio personaggio (e le sue, al contempo) con la “dinastia” degli Shakur, che da Assata a Tupac tanto ha prodotto in termini della controcultura nera contro il regime “amerikano”.
In questo senso, è totalizzante la presenza di Tupac Shakur, i cui testi (e la cui fiera rappresentazione di quella “thug life” che dà senso a tutto il libro) impregnano ogni pagina del libro, in persona o nella “controfigura” Askani Shakur, che vive la stessa “thug life” e muore a Las Vegas come 2Pac. È grazie anche e soprattutto alla musica di Shakur che il romanzo riesce a darci la sensazione di prima mano di quel misto di trionfo, depressione e paranoia che tante grandi canzoni ci ha dato.
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