The Bastard Language Tour
Di solito il turntablism non mi prende più di tanto: lo trovo spesso astrusamente troppo tecnico e solitamente piuttosto noioso. Al di là degli ovvi meriti di grandi artisti dei piatti e del mixer, chiaramente.
Enter The Bastard Language Tour: i ragazzi col furgone della pubblicità TIM sono stati rimpiazzati dai geniali Ricci Rucker, D-Styles e soci, Fiammetta non c’è più (Fat Jack fa tutto un altro effetto, spiace per lui ma devo dirlo), e soprattutto giradischi e mixer hanno preso il posto di chitarre e tastiere.
A parte questo, non sentirete composizioni di Bocelli in salsa pseudo-gggiovane, in questo film, ma solo produzioni pensate specificamente per i cinque componenti dell’anomala band protagonista della pellicola. Ognuno dei quali si incarica di scratchare la propria parte “strumentale” (ad esempio, Rucker è responsabile della parte ritmica degli scratch di batteria) con perizia e interessante capacità di giocare di squadra: in questo caso, si può veramente scomodare il vecchio luogo comune di “giradischi usato come strumento”, perché siamo di fronte ad una banda di specialisti, capaci persino di blandire quarantenni padri di famiglia assolutamente al di fuori del giro rap (accade nel film).
Rucker e soci creano delle partiture strumentali generalmente a moderato tasso di BPM, passando da momenti quasi “illbient” e dilatati a freestyle dalla precisione chirurgica e dalla incredibile somiglianza a loop veri e non a dimostrazioni di virtuosismo improvvisate. E lo fanno con incredibile capacità di giocare di squadra e “dedication” all’arte del turntablism, cosa impressionante oggi come nel 2003, l’anno in cui gli eventi sono stati filmati.
Se a ciò si aggiungono gli intervalli di vita vissuta (in tour), compresi di cazzeggio e di van che si fermano in cammino, e l’imperdibile parte di “sound design” a casa di D-Styles, in cui D-Styles e Ricci Rucker progettano suoni pazzeschi per lo scratch in tour (memorabile il suono del pennarello ad olio cui si leva il tappo), si ha il quadro di un documentario dal feeling, visivo e concettuale, molto “fatto in casa” ma imperdibile per chi vuole conoscere una delle facce meno note e più creative del mondo dell’hip hop.
Enter The Bastard Language Tour: i ragazzi col furgone della pubblicità TIM sono stati rimpiazzati dai geniali Ricci Rucker, D-Styles e soci, Fiammetta non c’è più (Fat Jack fa tutto un altro effetto, spiace per lui ma devo dirlo), e soprattutto giradischi e mixer hanno preso il posto di chitarre e tastiere.
A parte questo, non sentirete composizioni di Bocelli in salsa pseudo-gggiovane, in questo film, ma solo produzioni pensate specificamente per i cinque componenti dell’anomala band protagonista della pellicola. Ognuno dei quali si incarica di scratchare la propria parte “strumentale” (ad esempio, Rucker è responsabile della parte ritmica degli scratch di batteria) con perizia e interessante capacità di giocare di squadra: in questo caso, si può veramente scomodare il vecchio luogo comune di “giradischi usato come strumento”, perché siamo di fronte ad una banda di specialisti, capaci persino di blandire quarantenni padri di famiglia assolutamente al di fuori del giro rap (accade nel film).
Rucker e soci creano delle partiture strumentali generalmente a moderato tasso di BPM, passando da momenti quasi “illbient” e dilatati a freestyle dalla precisione chirurgica e dalla incredibile somiglianza a loop veri e non a dimostrazioni di virtuosismo improvvisate. E lo fanno con incredibile capacità di giocare di squadra e “dedication” all’arte del turntablism, cosa impressionante oggi come nel 2003, l’anno in cui gli eventi sono stati filmati.
Se a ciò si aggiungono gli intervalli di vita vissuta (in tour), compresi di cazzeggio e di van che si fermano in cammino, e l’imperdibile parte di “sound design” a casa di D-Styles, in cui D-Styles e Ricci Rucker progettano suoni pazzeschi per lo scratch in tour (memorabile il suono del pennarello ad olio cui si leva il tappo), si ha il quadro di un documentario dal feeling, visivo e concettuale, molto “fatto in casa” ma imperdibile per chi vuole conoscere una delle facce meno note e più creative del mondo dell’hip hop.
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