Recensione: Kento - Sacco o Vanzetti
Kento - Sacco o Vanzetti (Relief Records EU), 62 min.
Nel mio piccolo mondo autocontenuto e autoreferenziale, lo sapete, Rakim gira sempre insieme a Eric B., gli A Tribe Called Quest sono ancora “the next school”, e i Public Enemy sono la band più potente del pianeta. Roba da 1987, insomma.
Eppure, per fortuna (o no) non è più così, e quindi nell’orbita di una monade old school può anche entrare qualcosa di diverso e di cui valga comunque la pena parlare.
Come per esempio il disco di Kento, Sacco o Vanzetti, che mi costringe a confrontarmi di nuovo con l’hip hop italiano. Esercizio che, da parte mia, faccio volentieri, perché comunque mi spinge a far fare un po’ di ginnastica ai miei preconcetti ben pasciuti.
E quindi, come direbbe Elfayed: “And so we return and begin again”.
Sacco o Vanzetti, album d’esordio solista del rapper calabrese Kento, è uscito il 26 ottobre per Relief Records EU. Il disco è ispirato dalle vicende dei due anarchici italiani uccisi negli USA, gode di un ottimo mastering (Dehran Duckworth, presso il Relief Records NYC studio a Brooklyn), ed è disponibile in Italia anche sui principali portali digitali.
Il prodotto è molto professionale e curato in ogni aspetto, con una grafica che rifugge dallo scimmiottamento di certi modelli americani per concentrarsi invece su un minimalismo no-gimmick elegante e organico, a partire dalla copertina.
Kento è il prototipo dell’italico b-boy duro e puro, e magari oggi non è proprio l’animale rimatore più di moda nel Belpaese, in tempi di “dogate” imperanti, ma sicuramente ha un pregio non da poco: la sincerità.
Questa caratteristica di base, in sé, non è risolutiva, se non si accompagna a quella maturità che invece Kento dimostra nel tentativo di costruzione di un universo (musicale e oltre) che risulti personale. Operazione riuscita, anche se non manca qualche momento in cui la voce che il rapper calabrese sta evidentemente cercando si perde in derive un po’ troppo retoriche. Del resto, sin dal titolo, sembra chiara la posizione anarchica del rapper (e degli ospiti), e quindi il rischio di qualche scivolone “politico” è intuibile. Alla fine, comunque, la personalità del rapper è abbastanza definita e la visione del mondo sufficientemente matura e rielaborata. Anche quando la poesia lascia il posto a qualche schematismo leggermente superficiale, come per esempio in qualche momento di La Verità. Comunque meglio questo che i (finti) mafiosetti di quartiere, no?
Nonostante le piccole sbavature (perdonabili), la cosa che ho apprezzato di più è il tentativo di fondere influenze diverse (e certamente, nell’insieme, originali, come Coltrane, dance hall-reggae, l’approccio ricercato al “citazionismo culturale” e i tempi in quattro quarti, ma non solo) con un’attitudine militante che, sebbene a volte leggermente troppo enfatica, non manca di umanità e di intelligenza. In questo, emerge il tentativo intimo e sentito di ricerca di una “terza via” che, fortunatamente, si allontana dagli estremi - gangsta o backpacker - che sembrano definire le visioni dell’hip hop non solo in Italia (ironicamente, alla faccia di uno come Mike Ladd, citato invece nell’album). L’impianto della scrittura di Kento è certamente influenzato da alcuni dei pesi massimi della scena italiana (non faccio nomi, ma quel richiamo - “la vittima è la musica” - sembra chiaro, così come lo spirito di certa scuola romana), ma Kento si fa notare comunque per un flow spigliato che coniuga “personal struggle” e visioni poetiche più vicine alla sensibilità cantautorale italiana che non ai freestyle americani.
Una menzione la meritano anche i (pochi) featuring, scelti con cura e sempre appropriati, fra cui si segnalano il Lord Madness “a solo” di Marchetti House President e tutta la posse della bonus track (A).
La parte musicale del progetto è affidata in massima parte al beatmaker napoletano Peight, ed è informata a un boom bap di stampo classico in stile East, né troppo “sporco” né troppo fighetto. Invero, è un approccio che coglie molto spesso nel segno, come per esempio quando Willie Hutch viene triturato in Poeta Laureato o quando i suoni si fanno più “muscolari” (La Verità, Il Reale E L’Astratto).
In altri momenti, magari il bersaglio non è proprio colpito in pieno (come in Stalingrado, dove l’ottimo beat non sembra il più adatto all’argomento trattato), ma la stoffa c’è.
Un buon inizio che va premiato.
Per ulteriori informazioni: info@reliefrecordseu.com
Nel mio piccolo mondo autocontenuto e autoreferenziale, lo sapete, Rakim gira sempre insieme a Eric B., gli A Tribe Called Quest sono ancora “the next school”, e i Public Enemy sono la band più potente del pianeta. Roba da 1987, insomma.
Eppure, per fortuna (o no) non è più così, e quindi nell’orbita di una monade old school può anche entrare qualcosa di diverso e di cui valga comunque la pena parlare.
Come per esempio il disco di Kento, Sacco o Vanzetti, che mi costringe a confrontarmi di nuovo con l’hip hop italiano. Esercizio che, da parte mia, faccio volentieri, perché comunque mi spinge a far fare un po’ di ginnastica ai miei preconcetti ben pasciuti.
E quindi, come direbbe Elfayed: “And so we return and begin again”.
Sacco o Vanzetti, album d’esordio solista del rapper calabrese Kento, è uscito il 26 ottobre per Relief Records EU. Il disco è ispirato dalle vicende dei due anarchici italiani uccisi negli USA, gode di un ottimo mastering (Dehran Duckworth, presso il Relief Records NYC studio a Brooklyn), ed è disponibile in Italia anche sui principali portali digitali.
Il prodotto è molto professionale e curato in ogni aspetto, con una grafica che rifugge dallo scimmiottamento di certi modelli americani per concentrarsi invece su un minimalismo no-gimmick elegante e organico, a partire dalla copertina.
Kento è il prototipo dell’italico b-boy duro e puro, e magari oggi non è proprio l’animale rimatore più di moda nel Belpaese, in tempi di “dogate” imperanti, ma sicuramente ha un pregio non da poco: la sincerità.
Questa caratteristica di base, in sé, non è risolutiva, se non si accompagna a quella maturità che invece Kento dimostra nel tentativo di costruzione di un universo (musicale e oltre) che risulti personale. Operazione riuscita, anche se non manca qualche momento in cui la voce che il rapper calabrese sta evidentemente cercando si perde in derive un po’ troppo retoriche. Del resto, sin dal titolo, sembra chiara la posizione anarchica del rapper (e degli ospiti), e quindi il rischio di qualche scivolone “politico” è intuibile. Alla fine, comunque, la personalità del rapper è abbastanza definita e la visione del mondo sufficientemente matura e rielaborata. Anche quando la poesia lascia il posto a qualche schematismo leggermente superficiale, come per esempio in qualche momento di La Verità. Comunque meglio questo che i (finti) mafiosetti di quartiere, no?
Nonostante le piccole sbavature (perdonabili), la cosa che ho apprezzato di più è il tentativo di fondere influenze diverse (e certamente, nell’insieme, originali, come Coltrane, dance hall-reggae, l’approccio ricercato al “citazionismo culturale” e i tempi in quattro quarti, ma non solo) con un’attitudine militante che, sebbene a volte leggermente troppo enfatica, non manca di umanità e di intelligenza. In questo, emerge il tentativo intimo e sentito di ricerca di una “terza via” che, fortunatamente, si allontana dagli estremi - gangsta o backpacker - che sembrano definire le visioni dell’hip hop non solo in Italia (ironicamente, alla faccia di uno come Mike Ladd, citato invece nell’album). L’impianto della scrittura di Kento è certamente influenzato da alcuni dei pesi massimi della scena italiana (non faccio nomi, ma quel richiamo - “la vittima è la musica” - sembra chiaro, così come lo spirito di certa scuola romana), ma Kento si fa notare comunque per un flow spigliato che coniuga “personal struggle” e visioni poetiche più vicine alla sensibilità cantautorale italiana che non ai freestyle americani.
Una menzione la meritano anche i (pochi) featuring, scelti con cura e sempre appropriati, fra cui si segnalano il Lord Madness “a solo” di Marchetti House President e tutta la posse della bonus track (A).
La parte musicale del progetto è affidata in massima parte al beatmaker napoletano Peight, ed è informata a un boom bap di stampo classico in stile East, né troppo “sporco” né troppo fighetto. Invero, è un approccio che coglie molto spesso nel segno, come per esempio quando Willie Hutch viene triturato in Poeta Laureato o quando i suoni si fanno più “muscolari” (La Verità, Il Reale E L’Astratto).
In altri momenti, magari il bersaglio non è proprio colpito in pieno (come in Stalingrado, dove l’ottimo beat non sembra il più adatto all’argomento trattato), ma la stoffa c’è.
Un buon inizio che va premiato.
Per ulteriori informazioni: info@reliefrecordseu.com
10 commenti:
grazie mille.
k.
"la cosa che ho apprezzato di più è... ...e i tempi in quattro quarti"
uh?
esiste qualcuno che rappa sui valzer?
linkatemelo, NOW!
I tempi in quattro quarti come sinonimo del rap, uomo.
Ma ti devono sempre spiegare tutto?
Ma secondo te ha senso scrivere in una recensione di un disco hip hop che hai apprezzato il fatto che e' in 4/4?
Cioe' una caratteristica che hanno TUTTE le canzoni di TUTTI i generi tranne Valzer et similia e qualche sconosciuta sperimentalata contemporanea?
Forse intendevi qualcos'altro, mah.
Te lo riscrivo così capisci (forse):
Nonostante le piccole sbavature (perdonabili), la cosa che ho apprezzato di più è il tentativo di fondere influenze diverse (e certamente, nell’insieme, originali, come Coltrane, dance hall-reggae, l’approccio ricercato al “citazionismo culturale” col rap, ma non solo) con un’attitudine militante che, sebbene a volte leggermente troppo enfatica, non manca di umanità e di intelligenza.
ok a sto giro non avevo capito un cazzo io, lo ammetto.
No problem. Solo che io non capivo cosa tu non avessi capito, ed era frustrante.
Saluti.
Spero che non perderai l occasione del wtf su 50 a x factor... Perché se si mi deludi davvero...
RARASHiXXX
Non guardo TV, e specialmente X-factor, sorry.
Grande Kento!
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